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URLA DEL SILENZIO
(THE KILLING FIELDS)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 2 maggio 1985
 
di Roland Joffé, con Sam Waterston, Haing S. Ngor, John Malkovich, Julian Sands (Gran Bretagna - Stati Uniti, 1984)
 
La tragedia della Cambogia vista attraverso l'esperienza, autentica, di un giornalista del New York Times, Sydney Schanberg e del suo assistente e interprete cambogiano, Dith Pran.

I due vivono le fasi che precedono e seguono la drammatica presa di Phnom Penh del 17 aprile 1975: il film, che inizia sull'indignazione del corrispondente americano per gli insensati bombardamenti dei suoi compatrioti su una città storica cambogiana, riflette naturalmente quello che è stato il dramma per la maggioranza dei corrispondenti occidentali nel sud-est asiatico. Constatare come la soddisfazione per il successo di un movimento di liberazione nazionale si trasformi nell'orrore del totalitarismo e dello sterminio di Pol Pot. Constatare come le proprie convinzioni, la ragione d'essere del proprio lavoro, le nozioni del bene e del male possano, da un giorno all'altro, essere rimesse traumaticamente in discussione. A queste considerazioni generali il film aggiunge l'elemento privato: l'amicizia fra l'americano ed il cambogiano. Che spinge il corrispondente del New York Times (assieme alle errate convinzioni di cui sopra) a trattenere Dith Pran nella Phnom Penh evacuata dagli americani. Il che porterà il malcapitato direttamente nel cuore dell'orrore stalinista, quei "campi che uccidono" dei khmer rossi di cui al titolo inglese, al solito beceramente tradotto. Nel film, voluto da David Puttnam, il produttore inglese (Bugsy Malone, Midnight Express, Chariots of fire, Local Hero) che sempre di più si afferma come l'autore di un cinema di presa di coscienza umana all'interno di un dramma socio-politico, coincidono quindi due itinerari, quello privato e quello più vasto che fa da sfondo. Il secondo di questi aspetti costituisce la grande riuscita di URLA DEL SILENZIO. Proprio il fatto che il "privato" sia meno riuscito, che i personaggi siano (perlomeno all'inizio) difficilmente collocabili, esalta la descrizione degli avvenimenti. Tutta la violenza della guerra, tutta l'atrocità della condizione delle popolazioni innocenti, ma anche tutta l'assurdità delle menzogne degli uomini al potere, e il terrore, altrettanto glaciale, delle repressioni delle delazioni, delle liquidazioni, delle purghe e delle oppressioni poliziesche che seguono la guerra secondo una trama tristemente nota, il film di Putnam e del regista Joffé riesce a ridarcele con una forza ed una verità sconvolgenti. KILLING FIELDS, nella sua esitazione tra un realismo del genere Battaglia di Algeri (che gli autori dicono di avere avuto presente) ed un lirismo alla Apocalipse Now, sulla base di una ricostruzione tecnica inappuntabile, riescono a descriverci gli istanti estremi del naufragio occidentale in un paese asiatico come se li avessimo vissuti. Con un procedimento semplicissimo: mostrarci dei testimoni (dei giornalisti) che osservano una realtà ricreata artificiosamente. Ma che acquista, grazie a questo tramite, una verità maggiore (o perlomeno diversa ad un occhio guastato dalla quotidianità dell'attuale televisione) del documentario autentico. Lo sfondo non si limita a far vivere la finzione: ma gli autori riescono a renderlo determinante, mille volte più significativo dei personaggi che animano il racconto. Così tutta la seconda parte gli anni del silenzio e del terrore vissuti dal cambogiano nei campi di lavoro e durante l'evasione, vive magnificamente sugli spazi, sui toni di un ambiente (in effetti tailandese, per ovvie ragioni) che riesce a ridarci tutto il senso della tragedia corale.

Ben inferiore, purtroppo, è la parte che concerne i due protagonisti. Se Dith Pran (interpretato da un ex-medico cambogiano rifugiatosi negli USA) vive in un'immobilità silenziosa tutta la dignità e la tragedia asiatica, non altrettanto si può dire del manierato personaggio del giornalista americano. Tutto quanto lo concerne (tolto le scene corali che, come detto, si significano autonomamente) scade sul risaputo e sul convenzionale: così le sue lacrime all'ambasciata francese, i rimorsi da buona coscienza occidentale nelle inutili sequenze nuovaiorchesi. Per non citare la sequenza dell'abbraccio finale ridicola quasi quanto l'uso in sottofondo dell'ovvio pacifismo dell'"Imagine" lennoniano. Malgrado questi difetti un film come THE KILLING FIELDS non può essere ignorato da chiunque sia alla ricerca di un poco di verità in questi anni nutriti da innumerevoli verità.


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